mercoledì 17 febbraio 2010

UNA DONNA SIRO-FENICIA

UNA DONNA SIRO-FENICIA
(Marco cap. 7) [24]Partito di là, andò nella regione di Tiro e di Sidone. Ed entrato in una casa, voleva che nessuno lo sapesse, ma non potè restare nascosto. [25]Subito una donna che aveva la sua figlioletta posseduta da uno spirito immondo, appena lo seppe, andò e si gettò ai suoi piedi. [26]Ora, quella donna che lo pregava di scacciare il demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia. [27]Ed egli le disse: «Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». [28]Ma essa replicò: «Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli». [29]Allora le disse: «Per questa tua parola và, il demonio è uscito da tua figlia».
[30]Tornata a casa, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n'era andato.

Questo episodio della donna siro-fenicia o cananea, come la definisce il vangelo di Matteo, attira l’attenzione perché in questo caso Gesù ci comunica un altro messaggio oltre modo importante al giorno d’oggi e cioè che il suo messaggio è universale e non circoscrivibile esclusivamente al popolo di Israele, cioè ai circoncisi, e neppure è di totale appartenenza del popolo cristiano. Questa donna ha una grande angoscia a causa della propria figlia posseduta da un demonio. Certamente è pensabile che abbia fatto altri tentativi in altre direzioni per allontanare dalla amata figlioletta quella sgradita presenza, ma evidentemente con scarsi o nulli risultati. C’è ora questo profeta, questo sant’uomo, questo taumaturgo ebreo che si è chiuso in una casa e chiede di non essere disturbato (“Ed entrato in una casa, voleva che nessuno lo sapesse”). Il suo amore di madre però non conosce ostacoli e, non ostante il divieto e l’inopportunità, ella si presenta al taumaturgo e ne implora la grazia. Il sant’uomo però non le dà ascolto. Non che non se lo aspettasse. C’era da aspettarselo da un esponente di questo popolo altezzoso e pieno di sé che guarda tutti dall’alto della sua prosopopea e bolla gli esponenti di altre nazioni col sostantivo dispregiativo di “gohim” . Per quella donna è troppo importante quello che gli sta chiedendo e non può arrendersi neppure di fronte a quel paragone ingiurioso, cioè “«Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini».”. La sua figlioletta soffre e della sofferenza della figlia lei non può non farsi carico e sa che quel profeta, o chiunque egli sia, può aiutarla. Sa che ha fatto del bene dappertutto in Israele, che ha guarito da malattie gravissime fin dalla nascita, ha scacciato demoni, ha comandato ai venti, alle acque, agli elementi ed essi gli hanno ubbidito. Il suo amore di madre, la compassione per la figlia sofferente le impongono di essere anche sfrontata perciò risponde a Gesù: “[27]«E' vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». [28]Allora Gesù le replicò: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri». E da quell'istante sua figlia fu guarita.”(Mt.15). Gesù lodò la fede di questa donna straniera e le accordò quel che chiedeva.
Cosa può dire a noi oggi questo episodio?
Innanzi tutto che nessuno può appropriarsi del nome di Dio ritenendolo esclusivamente suo e neppure Gesù può essere etichettato come appartenente a qualcuno. Il popolo ebraico considerò se stesso, e a ragione, l’unico depositario della Parola di Dio; e persiste ancora dopo la venuta di Gesù. Che sia stato il popolo che il Signore si è scelto fra tanti popoli non può essere negato, ma dopo duemila anni il mancato riconoscimento di Gesù quale Figlio di Dio ancora pesa e forse peserà fino alla fine dei secoli.
In secondo luogo che noi cristiani siamo più colpevoli degli ebrei se ci riteniamo esclusivi depositari della Parola. In fondo gli ebrei avevano ordine di distruggere ogni traccia di altro culto nel loro territorio e di non imparentarsi coi popoli pagani, ma noi abbiamo ricevuto un messaggio da Gesù esattamente opposto a questo: Gesù è morto per tutti, indipendentemente dal colore della pelle, della razza, della cultura. Quello che più conta è la fede. Se si ha fede la speranza e la carità non possono mancare, e noi sappiamo che sono queste le virtù che portano alla salvezza. Il Battesimo da solo può salvare? Può salvare uno che si lamenta di essere stato battezzato al di fuori della sua volontà e che chiede (assurdità) di cancellare il suo battesimo? Certo, sappiamo bene che questo è un marchio indelebile che avrà il suo peso al momento del trapasso, ma certamente da solo non salva. La fede sì. La fede di quella donna non ebrea, non seguace di Gesù, che umiliava se stessa chiedendo aiuto ad uno straniero, ha salvato la figlia. Ed è augurabile che la fede in quel Dio a lei sconosciuto che aveva liberato la figlia dal maligno abbia concesso anche a lei quella salvezza eterna cui aspirava, seppure inconsciamente, nel suo cuore. La fede è al di sopra di tutto. Dio è unico, ma, a seconda della cultura ( e del culto), ha diversi nomi ed appellativi, ma è sempre lui, l’UNICO.

martedì 5 gennaio 2010

UNA DONNA ANONIMA GRIDO'

RITRATTI DI DONNA

UNA DONNA ALZO’ LA VOCE
(Luca cap. 11)

[24]Quando lo spirito immondo esce dall'uomo, si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo e, non trovandone, dice: Ritornerò nella mia casa da cui sono uscito. [25]Venuto, la trova spazzata e adorna. [26]Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui ed essi entrano e vi alloggiano e la condizione finale di quell'uomo diventa peggiore della prima». [27]Mentre diceva questo, una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!». [28]Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!».


Una folla ascoltava Gesù mentre parlava, verosimilmente in pubblico, forse in una piazza dove si era radunata un po’ di gente proprio per ascoltarlo. La gente, con tutta evidenza, era ammirata dalla saggezza degli insegnamenti di Gesù, dalla sua irreprensibile santità, dalla facoltà che aveva di compiere guarigioni, di scacciare demoni, tanto da suscitare oltre che rispetto per il “Rabbi” anche un senso di ammirazione (non invidia, credo) nei confronti suoi e della sua famiglia e, in particolare, della madre. «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!», grida una donna da mezzo alla folla. Forse anche lei è madre ed se avesse avuto un figlio come quello, o solo lo avesse potuto allattare, la avrebbe riempita di orgoglio. Beata la donna…!
Il grido di quella madre tra la folla esprime un sentimento umano, molto umano tanto da essere condiviso dai presenti. Nessuno infatti alza la voce a zittirla. E poi, non dice forse il proverbio “vox populi, vox Dei (voce del popolo, voce di Dio)”? Ed umanamente possiamo condividerla anche noi, ma solo per un attimo e solo umanamente. Ma se andiamo a vedere cosa pensa e dice di se stessa Maria, la madre di Gesù, anche quel “umanamente” e “per un attimo” svaniscono. Per far questo dobbiamo andare a prendere quell’ unico brano in cui Maria parla di se stessa, a parte quel “Sì” incondizionato dato all’angelo al momento della Annunciazione. Dobbiamo prendere quindi il“Magnificat”
(Luca cap. 1)
[46]Allora Maria disse:
« L'anima mia magnifica il Signore
[47]e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
[48]perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.


Guardiamo i primi due versetti del brano: "L'anima mia magnifica il Signore[47]e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,". I soggetti di queste due preposizioni sono “anima” e “spirito”. Ma che significato hanno questi due sostantivi? Hanno lo stesso significato? Vogliono cioè dire la stessa cosa? Nel N.T., scritto in greco, per la parola “anima” si usa il sostantivo psiché che viene usato anche col significato di vita. Mentre per “spirito” il greco usa “pnèuma” .
In poche parole non esiste una definizione chiara e soddisfacente né dell’uno né dell’altro. Per cercare di capirci qualcosa, penso di ricorrere ad un esegeta (ahimè!!) non cattolico che scriveva all’incirca 500 anni fa, il quale ne dà una spiegazione, forse non del tutto esauriente, ma certamente comprensibile e, per certi lati, suggestiva.
Dobbiamo prendere innanzi tutto la 1° lettera ai Tessalonicesi di S. Paolo

(1Tessalonicesi cap. 5) <<[23]Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo.>>
Da questo brano comprendiamo che la Scrittura considera parte integrante dell’uomo sia lo spirito, sia l’anima, sia il corpo. Cioè lo Spirito senza l’anima ed il corpo non è nulla come l’anima senza lo spirito ed il corpo non è nulla e il corpo senza l’anima e senza lo spirito non è nulla. Però lo spirito dell’uomo sopravive al corpo e all’anima perché eterno.
Lo spirito costituisce ciò che di più alto e nobile c’è nell’uomo che gli consente di percepire le cose incomprensibili, invisibili ed eterne. E’, in altre parole, la casa dove dimora la fede e la parola di Dio; per questo il
(Salmo 51)
[12]Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
(Cioè una fede forte e viva.) Mentre degli increduli e degli empi dice:
(Salmo 78)
[8]Non siano come i loro padri,
generazione ribelle e ostinata,
generazione dal cuore incostante
e dallo spirito infedele a Dio.
La seconda parte, l’anima, è lo stesso spirito sotto il profilo naturale;ad essa compete il compito di vivicare il corpo per mezzo del quale agisce. Nella Scrittura l’anima viene spesso intesa come vita. Perciò, mentre lo spirito può vivere senza il corpo, il corpo non vive senza lo spirito, il quale, come è di comune esperienza, vive ed opera anche durante il sonno. L’anima non è capace di afferrare le cose incomprensibili , ma soltanto ciò che la ragione le consente di conoscere e misurare. La ragione, quindi, che è la luce di questa casa, non opererà mai senza errore se non viene illuminata dallo spirito per mezzo della luce superiore delle fede. Essa è troppo limitata per intendere le cose divine.
L’esegeta cinquecentesco prosegue facendo un esempio pratico, fisico. Dice che Mosè, quando nel deserto del Sinai costruì il tabernacolo, lo divise in tre diversi ambienti. Il primo, il più profondo, si chiamava sanctum sanctorum , nel quale, in assoluta oscurità, abitava Dio. Il secondo ambiente, chiamato sanctum, conteneva il candelabro a sette bracci e sette lampade. Il terzo ambiente, chiamato atrium , il cortile, era un ambiente esterno, sotto il cielo aperto, alla luce del sole. Dice l’esegeta che in questa immagine è raffigurato il cristiano. Il suo spirito è il sanctum santorum (il Santo dei Santi), dimora di Dio nella fede oscura, senza luce, poiché crede ciò che non vede, ciò che non sente e ciò che la ragione non comprende. L’anima del cristiano è il sanctum ( il Santo) dove ci sono le sette luci, cioè ogni specie di intelligenza, ogni dono di discernimento, sapienza e conoscenza delle cose materiali visibili. L’atrium, il cortile, è il suo corpo, la parte tangibile che tutti possono vedere quando agisce ed opera.
Con questo aiuto, non certamente capaci di spiegare sufficientemente i due significati, tentiamo di capire cosa abbia voluto dire la Vergine Maria con << L'anima mia magnifica il Signore >>. L’anima è la sede dell’intelletto, dell’intelligenza, la sede dove si analizzano le sensazioni provenienti dalla realtà sensoriale elaborando pensieri e concetti, pertanto Maria magnifica Dio con tutta la sua intelligenza cui arrivano le visioni della magnificenza del creato, cui sono arrivate le parole dell’angelo. [47]e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,>>. “E anche la parte di me che concepisce l’idea di Dio, la parte di me capace di andare oltre il sensibile, la sede della fede che concepisce ed accetta il Mistero, anche questa parte di me si riempie di gioia al pensiero di Dio, mio Salvatore. La mia mente non è in grado di capire tutto quello che l’angelo ha voluto annunziarmi. Infatti come posso capire il mio concepimento senza conoscere uomo? Come posso capire cosa significa che Egli, colui che dovrà nascere sarà santo e chiamato Figlio di Dio?”
Certamente il Signore non diventa più grande per le lodi che noi gli possiamo dedicare; e neppure per le lodi di Maria. Ma nel lodare ed esaltare il Signore fortifichiamo la nostra fede, la capacità di sentirlo capace di fare grande cose e non solo le grandi cose che ha fatto in Maria ma che noi stessi, nella nostra miseria siamo protagonisti e non spettatori delle azioni di Dio. Anche in me, in ciascuno di noi, il Signore compie grandi cose in ogni momento.
Maria magnifica ed esalta il Signore e noi siamo chiamati ad unirci al suo canto, a farle da coro. Siamo protagonisti insieme con Maria delle grandi cose, dei grandi eventi che vedono lei in prima persona ma che vedono noi partecipi, almeno come oggetto, di questi grandi e straordinari avvenimenti. Egli, il Signore, è capace di liberarci dall’angoscia della morte, liberarci della morte stessa per vivere con Lui nell’eternità. E’ lo Spirito di Dio, infuso, soffiato in noi al momento della creazione, che ce lo attesta; non certamente la nostra anima capace di comprendere solo fenomeni razionali. Maria afferma che sia lo Spirito, capace di vedere oltre la ragione, sia l’anima, cioè tutta la sua forza razionale, la fanno esultare, traboccare di gioia di fronte alla magnificenza di Dio creatore, Padre e salvatore. E’ una gioia immensa, inesprimibile a parole: è l’abbandono fiducioso del piccolo fanciullo nelle braccia protettrici della madre che lo fa canticchiare di felicità.
[48]perché ha guardato l'umiltà della sua serva. “Il Signore mi ha colmato dei suoi doni non perché ha visto in me dei doni particolari, ma solo per la sua grazia e bontà: io non sono nulla”. Questo vuol dire Maria e lo afferma in tutta umiltà, senza falso orgoglio.
Spesso nella nostra umiltà c’è un talché di orgoglio, un qualcosa di falso: l’orgoglio della umiltà. “Guardate un po’ come sono umile” sembra che talvolta diciamo col nostro comportamento. Maria invece vuole farci capire che è come un principe, un re che si china sul mendicante in cui non è grande il mendicante ma il principe. Così il Signore che ha rivolto il suo sguardo a colei che era degna solo di essere calpestata, come la polvere della strada. “Umile” infatti deriva da humus che significa terra calpestabile, che sta sotto la pianta dei piedi. E Maria era umile davvero, non solo a parole.
Ed è per questo che il Signore Gesù le ha riservato un posto nella storia della salvezza che non ha eguali. A parte quel “Sì” incondizionato di cui abbiamo prima parlato e che tutti conosciamo ed è fonte di riflessione e meditazione per ogni cristiano da duemila anni, pensiamo all’episodio avvenuto sotto la Croce di Cristo
(Giovanni cap. 19)
[25]Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. [26]Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». [27]Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.

Sbrigativamente siamo portati a pensare che Gesù abbia voluto dare un tetto, ed uno che la proteggesse, alla sua mamma ormai rimasta sola. Ed è così, se ci si accontenta del solo significato letterale. Questa interpretazione del passo ha avuto illustri esegeti, a cominciare dal II° - III° secolo, ma la esegesi più moderna scava oltre il significato letterale per vederne un simbolismo più profondo. Già Agostino, dicono gli esegeti, metteva in relazione questo brano con l’episodio delle nozze di Canaan dove Gesù interpella sua madre con il termine per noi dissonante di “donna”. Nell’episodio delle nozze in Canaan di Galilea gli esegeti vedono Maria rappresentare la fede di Israele aperta alla Parola di Dio. Non tutti in Israele erano chiusi, impermeabile e sordi alla Parola di Dio; molti erano quelli il cui animo era aperto e disposto ad accettare quanto il Signore voleva loro dire, senza preclusioni e preconcetti. E Maria era colei che rappresentava la fede dell’Israele. Così alle nozze di Canaan e così sotto la Croce. Il discepolo, (Giovanni cap. 19)il discepolo che egli amava, è colui che ha poggiato la sua testa sul petto del Signore(Giovanni cap. 13,25), è colui al quale solo è stato rivelato il nome del traditore (Gio 13,26), è colui che seguì Gesù quando Giovanni il Battista indicò Gesù come “l’Agnello di Dio” (Giovanni 1,36-37), è lui che in quel momento più di ogni altro è il depositario del messaggio d’amore di Gesù. A lui Gesù sulla Croce prima di pronunciare le parole “Tutto è compiuto”, al testimone veritiero, consegna la fede e le radici del popolo di Israele. Maria è il tramite , la congiunzione fra la Vecchia Alleanza e la Nuova Alleanza, tra il Vecchio Testamento ed il Nuovo Testamento. (Giovanni cap. 19)[27]Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa. La Chiesa nuova, fondata da Cristo in Cristo e per Cristo,qui rappresentata da Giovanni, accoglie le radici di quell’Israele che aveva il cuore aperto ai misteri di Dio rappresentato da colei che fu la madre terrena di Gesù.
"D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata" Si badi bene alle parole: essa non dice che si parlerà bene di lei, che si celebrerà la sua virtù, si esalterà la sua verginità o umiltà, o che si canterà un inno all’opera sua , ma si dirà soltanto che Dio ha guardato a lei, per cui essa è beata. Solo per questo e solo in questo riposa la sua beatitudine. Il merito è solo di Dio che rivolto il suo sguardo alla bassezza della sua serva.
Ecco i motivi per cui Gesù non può accettare il grido di quella donna anonima tra la folla.
[28]Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!».
Questa frase di Gesù equivale a "Padre nostro.. ….sia fatta la tua volontà".
Ecco chi si può chiamare “beato”. "Beati tutti coloro che ascoltano e mettono in pratica la parola di Dio" .
Occorre a questo punto, mi pare, un esame di coscienza. Che ascoltiamo spesso la parola di Dio, più o meno attentamente, possiamo anche iscriverlo a nostro favore, ma in quanto a metterla in pratica…… Non è il caso di tirare in ballo tutte e sette i vizi capitali ma basta uno per tutti: l’accidia. Quante cose che avremmo potuto e dovuto fare e che non abbiamo fatto!! Quante occasioni mancate, quanti attimi perduti!! Quante decisioni rimandate ad un momento per noi migliore!! Se Maria avesse risposto all’angelo: “ Bene , adesso ci penso e poi ti darò la risposta” che ne sarebbe stato di noi ora?

giovedì 29 ottobre 2009

TAMAR

Qualche esegeta afferma che la donna in Israele prima di Gesù non superò lo stato di minorenne essendo la sua funzione nella società limitata alla maternità e, tutt’al più, alla educazione dei figli. Per questo il pio ebreo pregava, e prega: < Ti ringrazio, Signore, per non avermi fatto pagano, donna e ignorante ! >, mentre la donna si accontenta di ringraziare il Signore di averla fatta secondo la “Sua Volontà”.
Proprio perché la sua funzione nella società ebraica è limitata quasi esclusivamente alla maternità, questa sua funzione la donna la difende non solo come un dovere, il dovere di far figli, ma come un diritto cui non intende in alcun modo rinunciare. A tal proposito è istituito il levirato: (Deut.25, [5]Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si mariterà fuori, con un forestiero; il suo cognato verrà da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere del cognato; [6]il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questo non si estingua in Israele.
In questo contesto si situa la storia di Tamar. Giuda, figlio di Giacobbe, sposatosi con una Cananea, ha da questa donna tre figli. Giuda prende per moglie del suo primo figlio Er, Tamar. Er muore e Tamar rimane vedova. Giuda la dà in sposa al secondo figlio. Anche questo muore e Giuda dice a Tamar: < Il mio terzo figlio è ancora giovane perché te lo dia in sposo. Aspetta che cresca.> E Tamar aspetta. Dopo un certo tempo Tamar vede che il giovanotto è cresciuto e chiede ripetutamente a Giuda di darglielo come marito, secondo la legge del levirato. Giuda tergiversa e Tamar capisce che il suocero non ha alcuna intenzione di osservare quanto dispone la legge.
Giuda rimane vedovo della propria moglie e, trascorso il periodo di lutto, decide di recarsi là dove si trovavano i tosatori delle pecore del suo gregge. Tamar, toltasi il vestito da vedova, si fa trovare sulla via che sapeva Giuda avrebbe percorso, tutta agghindata e col viso coperto dal velo così come usavano le prostitute2. Giuda l’avvicina e si accordano per un capretto. Tamara però per essere sicura di ricevere il capretto pattuito chiede al suo apparentemente occasionale partner di lasciarle come pegno il bastone, il sigillo e il cordone del sigillo . Giuda acconsente e, dopo essersi unito a lei, prosegue la sua strada fino al campo dei tosatori. Subito incarica uno dei suoi di recapitare il capretto pattuito alla prostituta. Nel frattempo Tamar si è tolto il velo che le copriva il volto, si è tolto gli abiti da prostituta, ha indossato nuovamente i suoi abiti vedovili ed è ritornata a casa perciò quando l’incaricato di Giuda giunge sul posto indicatogli con il capretto non trova nessuno. Chiede in giro della prostituta, ma nessuno l’ ha vista; anzi l’assicurano che lì non c’è mai stata una prostituta. Riferisce il tutto a Giuda che, sulle prime, rimane sconcertato, ma poi pensa che lui il capretto pattuito l’aveva mandato e che non ha alcuna colpa se questo non è giunto a destinazione. E si dimentica dell’episodio.
Dopo qualche mese giunge all’orecchio di Giuda che (Gen.38,24)«Tamar, la tua nuora, si è prostituita e anzi è incinta a causa della prostituzione». Giuda disse: «Conducetela fuori e sia bruciata!». 25]Essa era già condotta fuori, quando mandò a dire al suocero: «Dell'uomo a cui appartengono questi oggetti io sono incinta». E aggiunse: «Riscontra, dunque, di chi siano questo sigillo, questi cordoni e questo bastone». [26]Giuda li riconobbe e disse: «Essa è più giusta di me, perché io non l'ho data a mio figlio Sela».
Né Giuda né il Signore punirono Tamàr. Tamàr partorì due gemelli che figurano in (Matteo cap. 1)[1]Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. [2]Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, [3]Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram…… Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, [6]Iesse generò il re Davide.
A dimostrazione che il Signore punisce il peccato e non il peccatore ecco che sia Tamàr che Rut sono assolte dai loro piccoli inganni perché ambedue hanno agito in nome di un diritto unanimemente riconosciuto. Inoltre entrano nella genealogia di Gesù pur essendo Rut moabita e Tamàr Cananea, quindi non ebree, appartenenti a popoli coi quali gli ebrei non dovevano contaminarsi secondo gli ordini di (Deuteronomio cap. 7)[3]Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, Ma il Signore è Signore di tutte le sue creature, a qualsiasi popolo esse appartengano, e perché Gesù fosse figlio dell’uomo, volle che nella Sua genealogia figurassero anche delle ascendenze non ebraiche.
Questo Bambino viene da lontano, ha legami indissolubili con il passato, con la storia, con la storia di Dio e del suo popolo. Non sarà quindi uno sconosciuto, non sarà un uomo venuto dal nulla, ma chiunque saprà in Israele e fuori di dove proviene, chi sono i suoi padri. Nessuno potrà dire: “Non ti conosco”. Nel mondo ebraico il nome di una persona aveva una grande importanza significando esso l’essenza stessa dell’individuo, la sua particolare ed irripetibile personalità. Ma accanto al nome proprio aveva un’enorme importanza anche l’identità degli ascendenti. Senza ascendenti, senza padri, senza antenati era difficile collocarlo nella società fosse essa tribale o nazionale: uno non esisteva. Anche tra noi, oggi, sebbene con connotazioni e significati differenti, nessuno può esistere nella società civile senza un cognome che fa evidentemente riferimento agli antenati, perciò tutti portiamo un secondo nome, oltre quello proprio, personale, che riporta agli antenati. Ecco perché l’angelo precisa che il Bambino porterà il sangue di Giacobbe ed erediterà il trono di Davide. Non ci sono e non possono esserci fratture fra il Bambino concepito e i suoi padri.

sabato 24 ottobre 2009

JEZABELE

«Che fai qui, Elia?». «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita». (1Re cap. 19) . Cosa era successo perché Elia, l’uomo di Dio, fosse così depresso e spaventato? E perché dice di essere rimasto solo lui a conservare la fede in Dio? Sembra di sentire certi nostri vecchi brontoloni per i quali tutto va in malora, compresa, e soprattutto, quella fede di cui si sentono l’ultimo rimasto. Il timore di Elia è un sentimento oggi giorno piuttosto diffuso. Si sente spesso dire: “Non c’è più fede, non c’è più timore di Dio”. Quei principi etici che hanno improntato la nostra vita e quella dei nostri padri non solo sono messi in discussione ma comportamenti disinvolti, un tempo esecrati, trovano sempre maggiore adesione e tolleranza in nome di un relativismo che tutto copre e giustifica. Lo scoraggiamento di Elia, che forse oggi molti di noi provano, è lo stesso scoraggiamento provato da sempre da tutte le generazioni di fronte al cinismo, alla violenza, alla ingiustizia.
Elia, in concreto, di chi aveva paura? Chi era quello che lo atterriva fino a fargli desiderare la morte? Jezabele era la fonte delle sue angosce. Jezabele era la moglie del re di Israele Acab. Alla morte del re Salomone il suo regno si divise in regno di Israele a nord e di Giuda a Sud, con capitale Gerusalemme. Il regno del nord, con capitale Samaria, confinava con la terra dei Fenici con i quali non si poteva non avere rapporti di buon vicinato e amichevoli con scambi commerciali sempre più frequenti tanto che Acab sposò la figlia del re di Tiro, Jezabele. I Fenici era un popolo mercanti, marinai, navigatori e avventurieri spesso senza scrupoli, specialmente agli occhi degli abitanti del regno di Israele che erano, per tradizione, pastori e contadini. Con Jezabele in Israele entrarono nuove abitudini di vita, nuovi costumi e, favorita dalla regina, si espanse il culto di Baal. Naturalmente i nuovi costumi consistevano anche in una maggiore diffusione del commercio e degli affari. Ora attaccato alla casa di Acab c’era una vigna di proprietà di un certo Nabot di Izreèl e Acab chiese a Nabot: “Cedimi la tua vigna; siccome è vicina alla mia casa, ne farei un orto. In cambio ti darò una vigna migliore oppure, se preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale». [3]Nabot rispose ad Acab: «Mi guardi il Signore dal cederti l'eredità dei miei padri”.(1Re cap. 21) La proposta era onesta e ragionevole. Per di più Acab pur essendo il re, proponeva un affare, uno scambio da privato a privato esautorandosi in quella occasione dal suo rango di monarca assoluto. Ma Nabot gli rispose scandalizzato: “ Non te la venderò mai”. Non che Nabot fosse un oppositore del re, ma era un uomo all’antica, attaccato alle tradizioni dei padri e vendendo la vigna che aveva ereditato dal padre, gli sembrava di vendere anche lui o il suo ricordo. Anche oggi, ai nostri giorni, l’emigrato per ragioni di lavoro non vuole in alcun modo disfarsi della vecchia casetta paterna pur non essendo, talvolta, in condizioni di apportarvi le opportune manutenzioni; forse, nel suo intimo, pensa di far torto ai genitori.
Acab questo rifiuto lo prese molto male e, profondamente addolorato, si mise a letto, si girò verso il muro rifiutandosi anche di mangiare. Jezabele, informata dello stato depressivo in cui era caduto il marito, gli chiese il motivo di tanto angoscioso dolore e, dopo tante amorevoli insistenze, Acab le confidò che il motivo dell’angoscia che attanagliava il suo cuore era il categorico rifiuto di Nabot a vendergli la vigna. Al che lei, donna pratica e sbrigativa: ”Tu ora eserciti il regno su Israele? Alzati, mangia e il tuo cuore gioisca. Te la darò io la vigna di Nabot di Izreèl!”. (1Re cap. 21) Immediatamente Jezabele spedì delle lettere apponendovi il sigillo reale, quindi praticamente a nome del re, ai dignitari del distretto di Nabot ordinando che si facesse un banchetto sacro durante il quale Nabot, anche lui invitato, doveva essere accusato da testimoni scellerati e prezzolati di aver parlato male del re e di aver bestemmiato Dio e pertanto doveva essere condannato a morte e la sentenza doveva essere eseguita all’istante. Tutto viene eseguito secondo gli ordini. Jezabele ne è immediatamente informata e lo comunica ad Acab che si reca a prendere possesso della vigna. Evidentemente il povero Nabot non aveva eredi che potessero contestarne il possesso al re. Mentre si trovava ancora nella vigna sopraggiunse il profeta Elia, divinamente informato. Acab non può che confessare di essere stato colto in fragrante e il profeta gli riferisce ciò che il Signore gli aveva ordinato di dire ad Acab: “Hai assassinato e ora usurpi! Per questo dice il Signore: Nel punto ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue”. (1Re cap. 21) E’ naturale pensare che Acab corse dalla moglie Jezabele che sembra essere la donna forte e spregiudicata capace di affrontare impavida ogni difficoltà. Essa è tanto sicura di se, , tanto impudente da non dare gran peso alla profezia di Elia. Ma quando sente che l’uomo di Dio aveva letteralmente scannato con le sue mani quattrocentocinquanta sacerdoti di Baal nel torrente Kison ai piedi del Carmelo, quei sacerdoti di Baal che lei sovvenzionava e manteneva, la sua ira si accese e mandò a dire a Elia: “Gli dei mi facciano questo e anche di peggio, se domani a quest'ora non avrò reso te come uno di quelli”. (1Re cap. 19). Il profeta doveva ben conoscere l’animo crudele e spietato di Jezabele per non mettersi paura. Angosciato e in uno stato depressivo comprensibile non può che scappare il più lontano possibile. Camminò fino a Bersabea (Ber Sheeba), circa 250 – 300 Km a sud del torrente Kison, dove lasciò il ragazzo che lo accudiva e si inoltrò per una giornata di cammino nel deserto del Negheb per coricarsi sotto un ginepro per aspettare la morte. L’angelo del Signore lo svegliò e lo rifocillò affinché riprendesse le forze per arrivare all’Oreb, alla montagna di Dio dove incontra il Signore che gli chiede: ” Che fai qui, Elia?”. (1Re cap. 19) [14]Egli rispose: “Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita”. Il Signore gli ordina di ritornare in Israele e di ungere re di Israele Ieu, figlio di Nimsi. Gli confida inoltre che in Israele ci sono settemila persone che non hanno piegato le ginocchia di fronte a Baal.
Anche noi talvolta ci lasciamo prendere dallo scoramento osservando quanto poco interesse abbiano i nostri contemporanei nelle cose di Dio. Constatiamo la superficialità delle cose religiose, l’assenza di interesse per le cose di Dio, il relativismo diffuso a tutti i livelli, compresa la gerarchia ecclesiastica, e ci lasciamo prendere dal sentimento di Elia: “Sono rimasto solo o siamo rimasti in pochi “. Non è così, naturalmente. Il Signore guarda lo spirito dell’uomo e certamente ha molti più fedeli di quanto noi possiamo immaginare. Un notabile arabo che visitò l’Europa nella seconda metà dell’ottocento, a chi gli chiedeva come avesse trovato il mondo cristiano rispondeva di aver trovato più islamici (sottomessi a Dio) in occidente che non in Arabia. Ad un occhio attento penso che le cose non siano cambiate e che ci siano tante persone credenti e di fede che ai nostri occhi cisposi e velati non appaiono.
La storia di Jezabele finisce qui? No, di certo. Anzi adesso viene il bello.
[30]Acab figlio di Omri fece ciò che è male agli occhi del Signore, peggio di tutti i suoi predecessori. (1Re cap. 16). Sorpreso da Elia mentre usurpava la vigna di Nabot, si stacciò le vesti, si coprì di sacco e fece penitenza dei suoi peccati. Ma il lupo perde il pelo, ma non il vizio e continuò nelle sue malefatte. Con un pretesto attaccò guerra ad un vicino e durante la battaglia una freccia scagliata a caso, nel mucchio, colpì proprio Acab tra le maglie dell’armatura e la corazza. Sentendosi ferito, Acab ordinò al cocchiere di tirarsi fuori dalla mischia. Il sangue colava dalla ferita e si raccoglieva sul fondo del carro da battaglia e alla sera il re morì. Lo portarono a Samaria e lo seppellirono. [38]Il carro fu lavato nella piscina di Samaria dove si lavavano le prostitute e i cani leccarono il suo sangue, secondo la parola pronunziata dal Signore. (1Re cap. 22)
Sull’Oreb il Signore aveva ordinato ad Elia di ungere re di Israele Ieu, figlio di Nimsi. Pertanto Ieu prese il potere. Se Jezabele era sanguinaria in Ieu aveva trovato pane per i suoi denti. Unto re di Israele Ieu fa strage di figli, parenti e amici del re. Per la morte di Jezabele cedo la parola al cronista biblico.
(2Re cap. 9) [30]Ieu arrivò in Izreèl. Appena lo seppe, Jezabele si truccò gli occhi con stibio, si acconciò la capigliatura e si mise alla finestra. [31]Mentre Ieu entrava per la porta, gli domando: «Tutto bene, o Zimri, assassino del suo padrone?». [32]Ieu alzò lo sguardo alla finestra e disse: «Chi è con me? Chi?». Due o tre eunuchi si affacciarono a guardarlo. [33]Egli disse: «Gettatela giù». La gettarono giù. Il suo sangue schizzò sul muro e sui cavalli. Ieu passò sul suo corpo, [34]poi entrò, mangiò e bevve; alla fine ordinò: «Andate a vedere quella maledetta e seppellitela, perché era figlia di re». [35]Andati per seppellirla, non trovarono altro che il cranio, i piedi e le palme delle mani. [36]Tornati, riferirono il fatto a Ieu, che disse: «Si è avverata così la parola che il Signore aveva detta per mezzo del suo servo Elia il Tisbita: Nel campo di Izreèl i cani divoreranno la carne di Jezabele. [37]E il cadavere di Jezabele nella campagna sarà come letame, perché non si possa dire: Questa è Jezabele».
Vi ho raccontato una ben triste storia, mi rendo conto, che non ha bisogno di commento. Non c’è nessuno che sia tanto crudele da non trovare uno più crudele di lui. Jezabele era una donna crudele e spietata e pagò duramente le sue innumerevoli colpe.
Storicamente questi fatti sono avvenuti tra l’ 875 e l’ 845 a.C. La situazione socio-politica vedeva Israele esercitava l’agricoltura e la pastorizia, mentre nel Libano, e nella fattispecie Tiro, da circa 100 - 150 anni andava per mare commerciando. Israele cercava di modificare il suo modo di vivere affacciandosi ad un mondo di commercio e di affari per i quali non tutti erano ugualmente preparati. Quando avvengono dei cambiamenti troppo rapidi nei sistemi di vita c’è sempre qualcuno, o più di qualcuno, che impone la sua legge spesso prepotente e violenta specialmente a carico dei più deboli. I nostri tempi non sono molto diversi da quelli, a mio modo di vedere.
Ora, ciascuno a modo suo tragga la morale da tutta questa storia.